Medico del lavoro: perché è fondamentale?

Intervista al dott. Fulvio D’Orsi

La figura del medico del lavoro negli ultimi due anni, a causa della pandemia da Covid-19, è diventata molto dibattuta e argomento di discussioni pubbliche. Tuttavia, il medico competente e il tema della sorveglianza sanitaria nelle aziende esistono da tempo.

Ne abbiamo parlato con il dott. Fulvio D’Orsi, medico del lavoro dal 2015 in pensione e direttore scientifico di una società di consulenza, che fa medicina del lavoro per le aziende, oltre ad essere un consulente della UIL e fare parte della Consulta dei medici legali dell’Ital.

Con la pandemia si è parlato molto della figura del medico competente. Quanto fatto in questo periodo, da parte dei medici è stato sufficiente?

In questi due anni di gestione della pandemia (che non sappiamo ancora se sia realmente finita, anche se siamo ad un punto di svolta, grazie ai vaccini) effettivamente c’è stato un protagonismo, una messa in luce della figura del medico competente ma, è anche vero che tutto ciò ha svelato i limiti dell’impostazione della medicina del lavoro. Il medico competente era definito dal D. Lgs. 81/08, una norma fondamentale che tuttavia ha disatteso le aspettative.

La prima volta che si è iniziato a parlare di un Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro risale alla riforma sanitaria nel 1978. Quando il TU è finalmente uscito, nel 2008, il mondo del lavoro, il mondo della produzione, in qualche modo era già cambiato. Il D. Lgs. 81/08 stabilisce tutto quello che, nell’intervallo di quei trenta anni, era stato ritenuto utile e corretto per la Medicina del Lavoro. Ma in quei trenta anni si dava grande importanza ai rischi tradizionali. L’approccio, corretto, era quello di proteggere i lavoratori dai danni di un rischio lavorativo.
Prendiamo ad esempio il rumore, si prescrivono finalmente esami specifici al lavoratore, come le audiometrie, non ritenendo più una semplice visita per verificare il suo stato di salute, sufficiente. La logica del Decreto 81/08 è quindi basata sull’analisi dei rischi, apparato uditivo per il rumore, apparato respiratorio per le polveri, etc.

Ma il mondo della produzione non è più quello. Il rischio infortunistico rimane prioritario, ma i problemi di salute non sono più così manichei, per cui c’è un fattore di rischio sul luogo di lavoro e un conseguente danno alla salute che può essere evitato, gestendo adeguatamente il rischio.
Il ruolo del medico competente era prioritariamente quello di collaborare alla valutazione dei rischi, cioè di individuare le misure di prevenzione e, inoltre, di verificare in base alla sorveglianza sanitaria dei lavoratori gli effetti, gli eventuali danni possibili, la necessità di misure aggiuntive per le persone che potevano avere una maggiore suscettibilità.

Cosa potrebbe essere migliorato nell’interazione fra medico competente e lavoratori in termini di tutela della salute e sicurezza?

Oggi in realtà, il “mondo” che riconosce la figura del medico competente, come l’Europa, gli Stati Uniti etc. è un mondo in cui i rischi per la salute sono profondamente cambiati.
Quello che riscontriamo oggi è che il lavoro è un determinante di salute in senso lato. I danni alla salute attribuibili all’esposizione lavorativa non sono univoci, ma possono essere diversi in funzione di fattori individuali come l’età, il genere, eventuali patologie coesistenti. Inoltre, questi elementi si intrecciano con altri elementi che da sempre sono stati considerati secondari rispetto all’esposizione lavorativa, come ad esempio le abitudini alimentari, la gestione dello stress, la qualità del sonno, il risveglio, il fare o non fare attività fisica, cioè lo stile di vita, che è anch’esso condizionato dal lavoro, dagli orari, dalla retribuzione, dalla distanza, da tutta una serie di fattori da sempre considerati esterni rispetto ai rischi lavorativi. C’è un intreccio molto stretto tra tutte queste cose.

L’approccio tradizionale, che segue il dettato del D. Lgs. 81/08, in Italia è particolarmente rigido: è disciplinata la figura del medico competente, il quale ha una serie di obblighi ed è passibile di sanzioni penali se non li rispetta. Ciò nonostante, abbiamo mantenuto in vigore l’art. 5 della Legge 300, cioè l’idea che il medico competente non sia il medico che può controllare lo stato di salute del lavoratore, perché questo è compito del medico pubblico. In qualche maniera siamo prigionieri di una normativa che è superata, che condiziona profondamente i ruoli e che, di fatto, è la prima causa di una inadeguatezza rispetto al problema. Con la pandemia si è parlato molto del medico competente; il legislatore ha istituito la Sorveglianza medica straordinaria. Il Covid era un rischio non insito nel processo produttivo, ma derivante dal contesto generale come, ad esempio, prendere un mezzo pubblico per andare al lavoro.
Quindi questo il primo elemento: la necessità di un rinnovamento del ruolo del medico competente, attraverso una revisione normativa che cerchi di fissare per legge non i processi, ma gli obiettivi.

Poi c’è il tema della fragilità, fortemente emerso con la pandemia.
L’approccio tradizionale partiva dall’ambiente, partiva dai rischi e andava a vedere gli effetti sulla persona.
L’approccio con il Covid è stato di partire dalla persona, dalle sue problematiche, dalle condizioni di qualsiasi origine che rendono la persona più suscettibile di un danno alla salute nella condizione in cui si trova ad operare. Quindi c’è voluto un approccio della medicina del lavoro che creasse maggiore tutela per queste persone.
Il tema principale del Covid era questo perché era legato ad un rischio ubiquitario, non necessariamente presente sul posto di lavoro. Il punto centrale è che le persone che hanno problemi di salute hanno necessità, non tanto di essere tutelate dall’aggravamento delle loro condizioni, ma piuttosto di essere messe in condizioni di poter lavorare. L’obiettivo di proteggere queste persone dalla malattia, dal danno alla salute, è un obiettivo residuale. L’obiettivo vero è quello di far lavorare appieno le persone. Impedire che le condizioni di salute rappresentino un limite alla possibilità di esprimersi sul piano della professionalità, sul piano della competenza, sul piano appunto dell’attività lavorativa.

Ogni Decreto emanato in questo periodo di Covid, regolarmente dimenticava i lavoratori e le lavoratrici fragili.

Si sarebbe potuto fare di più? Ma più in generale, per chi risulta inidoneo, anche temporaneamente alla mansione, si potrebbe fare qualcosa di più?

Il tema della fragilità nel caso del Covid aveva delle caratteristiche particolari, in due anni la materia si è evoluta tantissimo e i vaccini hanno profondamente ridimensionato il problema.
All’inizio però le persone con immunodeficienza, dovevano stare a casa. Il discorso della inidoneità al lavoro è un discorso molto più ampio. Sicuramente si dovrebbe fare di più. E sicuramente è diventato prioritario, ad esempio, per quanto riguarda l’invecchiamento. Si va in pensione molto più tardi e l’età lavorativa si è prolungata veramente tanto. Le condizioni, la capacità prestazionale delle persone con l’avanzare dell’età, hanno delle criticità: per alcune mansioni diminuiscono nettamente, per altre, magari più intellettuali, possono rimanere indifferenti o addirittura migliorare. Però indubbiamente
il tema dell’invecchiamento è un tema critico.

La medicina del lavoro che si limita, in qualche modo, a proteggere dall’eventualità di un danno alla salute, alla fine è una medicina che non fa altro che produrre persone con limitazioni.
Così si genera una cultura molto negativa, perché dal punto di vista aziendale, quel lavoratore non rende quanto voluto, ma non può essere licenziato per tutta una serie di tutele normative, per cui in fondo, l’azienda non sa che farsene; mentre, dall’altra parte, c’è quasi una cultura di non lavoro per la quale il lavoratore accettando il giudizio di inidoneità può evitare i compiti più gravosi, come ad esempio il lavoro di notte o il lavoro allo sportello, lasciandoli agli altri.
Ma gli aspetti nocivi vanno gestiti, ridotti, contrastati attraverso misure di prevenzione. E la prevenzione non è “lo faccio fare ad un altro”. La prevenzione è gestire attraverso una serie di misure cautelative e compensative, che fanno sì che la situazione non crei danni né sull’aspetto fisico delle persone né per quanto riguarda questioni di stress e quindi di natura psicologica.

Il giudizio di inidoneità, porta ad una situazione fatta di due momenti. Il primo momento è quello del medico, il quale sulla base dello stato di salute dà precise indicazioni: prescrizioni, limitazioni o addirittura esclusione dalla mansione. Poi, però, c’è un secondo momento, che è l’accomodamento ragionevole. Una grande rivoluzione che nasce dalla convezione ONU del 2006 e dalla direttiva 200/78/CE sulla non discriminazione dei disabili: trovare modo e maniera per cui anche la persona inidonea possa lavorare. Il preambolo della normativa europea dice una delle cose più importanti: che l’accomodamento ragionevole non è dare un lavoro ad una persona che non ne sia capace, che non lo voglia fare ma, al contrario, è trovare una modalità per cui una persona non venga discriminata sul lavoro in ragione di una condizione di salute. Quindi, la finalità principale dovrebbe essere quella di utilizzare la persona appieno.

Se dovesse descrivere la figura del medico competente ideale come sarebbe?

La mia generazione ha fatto un po’ da pioniera. Quando parlavo con qualcuno di questa specializzazione le persone mi dicevano: “ma cosa andrai a fare? Tu vai lì, una persona è malata e tutto quello che fai è dirgli: tu non devi lavorare”. Ma poi non è così, perché la persona deve lavorare lo stesso. Quindi che medicina è? La mia generazione è nata con l’idea che si potesse affrontare questo tema cambiando il lavoro. Il punto centrale è questo: riuscire a cambiare il lavoro in modo che non sia nocivo per le persone. C’era anche l’idea che, tutta una serie di malattie potessero essere molto più efficacemente combattute con la prevenzione. È anche più facile fare prevenzione in un ambiente di lavoro, introducendo un sollevatore o un ausilio, piuttosto che, semplicemente, rieducare al corretto movimento una persona nella movimentazione dei carichi.

La medicina del lavoro di oggi è diversa. Una parte di questa cultura si è andata un po’ perdendo. Oggi è una medicina molto preoccupata degli obblighi normativi, dell’ aspetto sanzionatorio, che porta a volte alla sanzione anche per un errore procedurale e non per un errore professionale.
Questi aspetti hanno contribuito abbastanza a deformare la professione. Quando insegno questa è una delle cose più faticose è far capire alle persone che si è comunque medici.

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