Ore 12:28. Il disastro di Seveso

Alle 12:28 del 10 luglio 1976 a Meda e Seveso, nella bassa Brianza, risuonò un breve allarme. Solo alcuni secondi in realtà che quasi nessuno se ne accorse nei dintorni della fabbrica ICMESA, industria chimica svizzera che faceva parte del gruppo Givaudan, acquistato dalla Hoffmann-La Roche.

Nei dintorni della fabbrica vivevano famiglie perlopiù a basso reddito, lavoratori che dal sud erano emigrati per cercare nuove possibilità in un’Italia che nel dopo guerra era proiettata verso l’industrializzazione e il boom economico.

Quasi nessuno si accorse di quel flebile sibilo. Solo l’odore acre nell’aria portò alcuni a chiedersi cosa stesse succedendo.

E quello che stava succedendo è stato, poi, classificato come uno dei più grandi disastri umani e ambientali nel mondo.

Nella ICMESA si produceva triclorofenolo, una sostanza impiegata nella produzione di diserbanti, fungicidi e battericidi. L’alta domanda di questa sostanza aveva spinto la società svizzera ad aumentare i cicli produttivi settimanali. 

Poi, quel 10 luglio, la tragedia: il malfunzionamento dell’impianto provocò la fuoriuscita e la dispersione di una nube di diossina TCDD, una sostanza artificiale fra le più tossiche in circolazione. La stessa sostanza che, per capirci, pochi anni prima i soldati americani utilizzarono nell’agente arancio per combattere i Viet Cong.

Una nube tossica, visibile ad occhio nudo, colpì i comuni limitrofi di Meda, Seveso, Cesano Maderno, Limbiate e Desio. 

Seveso era situato immediatamente a sud della fabbrica, proprio la direzione verso dove tirava il vento quel giorno.

Nessuno disse nulla. Tutto sembrava tranquillo. Un giorno qualunque nella bassa Brianza.

Ma, intorno, la morte si stava già diffondendo. Prima nelle coltivazioni, poi negli animali e i bambini, proprio loro, iniziavano ad avere strani problemi alla pelle, quasi delle ustioni cutanee.

Nel frattempo, in Svizzera, iniziarono le indagini sulla nocività della diossina. Il tutto in segreto e senza avvisare le autorità italiane. 

Il 17 luglio uscì la notizia sui giornali.

Il 19 luglio la proprietà della fabbrica ammise la dispersione della nube tossica.

Il 24 luglio i Comuni di Meda e Seveso emisero l’ordine di evacuare la zona.

Passarono ben 14 giorni in cui le persone del luogo continuarono a mangiare i prodotti locali, girare per le strade, correre nei parchi. Respirare.

Migliaia di animali furono abbattuti, 240 abitanti (soprattutto bambini) ebbero conseguenze gravi sulla pelle, la vegetazione ne uscì completamente distrutta. Su ciò che non era possibile vedere a occhio nudo la scienza ancora non era arrivata.

Le conseguenze della dispersione della diossina furono, infatti, più note solo dopo molto tempo.

Il dubbio su ciò che poteva accadere alle donne in stato di gravidanza e sul feto stesso aprì un dibattito in Italia che portò ad un’apertura in un percorso che portò alla Legge 194 e il riconoscimento del diritto all’aborto. Nel 1976 era, infatti, ancora illegale la pratica dell’interruzione di gravidanza volontaria, se non per alcune specifiche categorie e solo se ci fossero stati dei rischi per le future madri.  

Per le donne abitanti della zona fu consentito l’aborto volontario considerando il dubbio che forse ci sarebbero stati problemi seri per i nascituri. Una situazione difficile, una decisione difficile da prendere per delle famiglie già profondamente colpite.

Dopo il disastro di Seveso tutti si sentirono più fragili di fronte ai siti industriali presenti.

Ciò che accadde spinse l’Unione Europea a pensare quella che sarà di fatto la prima disciplina in materia di rischi industriali, la Direttiva “Seveso”.

Un baluardo nella normativa per la prevenzione degli incidenti particolarmente rilevanti che obbliga i gestori e i proprietari di depositi e impianti, dove avviene l’utilizzo e la lavorazione di sostanze pericolose, a adottare idonee precauzioni per impedire tragedie come quella di Seveso.

In Italia la direttiva Seveso I è stata recepita con il D.P.R. 17 maggio 1988, n. 175 e negli anni successivi sono state emanate nuove norme ad hoc con le direttive Seveso II e Seveso III.

Era il dieci luglio, di una terra senza colpa. Bambini nei giardini giocavano nel sole
e l’aria era di casa, di sugo e di fatica e vecchi nella piazza parlavano d’amore e donne al davanzale lanciavano parole sepolte ormai nel ventre di madri perdute, perdute, perdute dal cielo, dal cielo proprio sopra di noi che restiamo a guardare morire le radici…”
Così cantava Antonello Venditti nella sua “Canzone per Seveso”.

Della tragedia di Seveso ci rimangono poche testimonianze, immagini di tute bianche, un terreno desolato, i volti dei bambini deturpati e le case vuote. Scheletri che lasciando dietro di loro la testimonianza di ciò che è avvenuto in un paesino della bassa Brianza, in un periodo già molto difficile per l’Italia come quello degli anni ’70.

Di Seveso ci rimane, inoltre, una storia in cui il profitto doveva vincere su tutto, sulle vite di chi c’era e su chi ci sarebbe stato dopo. Quella storia, quell’idea non devono più trovare spazio in un mondo in cui il rispetto della vita e dell’ambiente non possono essere messi in secondo piano.

Se oggi abbiamo una coscienza collettiva, inItalia e in Europa, sulla tutela dell’ambiente e sull’inserimento dei siti industriali all’interno di un contesto territoriale che rispetti standard di salute e sicurezza, in qualche modo lo dobbiamo anche a chi ha vissuto queste tragedie letteralmente sulla propria pelle.

Quello che spetta a noi tutti è sostenere questa coscienza e renderla diritto.

Redazione Zero Morti

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