Il disastro dell’Arsia: una tragedia dimenticata

Centinaia di morti per il delirio bellico dell’impero fascista. È questa la sintesi perfetta del disastro nelle miniere dell’Arsia, una tragedia dimenticata. Infatti, oggi, l’incidente minerario più grave del nostro paese è pressoché sconosciuto. Un tassello fondamentale della memoria collettiva da riprendere e rimettere al suo posto nella Storia.

I fatti.

Il 28 febbraio del 1940, ad Arsia, sono le 4,45 quando l’ingegnere Seguiti corre ad allertare il Ministero delle Corporazioni: “…probabile scoppio polvere carbone causava ondata esplosiva et forte produzione ossido carbonio che invadeva tutti cantieri camera uno et limitrofi camera tre”.

Mentre detta il telegramma, le ambulanze a sirene spiegate si precipitano ai pozzi e svegliano la città. La gente capisce subito: sottoterra si muore. 

Più carbone, più in fretta, ad ogni costo.

Quel giorno nella piccola cittadina istriana si contarono 185 morti ufficiali, due corpi mai identificati e un ultimo minatore tuttora disperso. Fu il più grande disastro minerario della Storia Italiana, peggio di Marcinelle e secondo nel mondo solo alla strage di Courriers. Ma quasi nessuno lo sa. La tragedia dell’Arsia è sconosciuta. È rimasta seppellita nel fuoco incrociato della censura fascista e dell’indifferenza jugoslava.  Con la guerra mondiale prima e le contese di confine poi, il ricordo è sbiadito. 

Eppure, non c’è regione del nostro paese che non abbia pianto un caro quel fatidico 28 febbraio. Negli anni 30, infatti, migliaia di italiani si trasferirono nel Nord Est della penisola per trovare lavoro nelle miniere istriane. 

All’epoca erano vitali per il regime. Dopo le sanzioni per l’invasione in Etiopia e il blocco navale alleato che impediva i rifornimenti tedeschi, il fascismo aveva fame di carbone. Non si poteva entrare in guerra senza combustibile. Perciò serviva produrne di più e più in fretta, a qualunque costo. Con la retorica dell’italica grandezza, l’attività estrattiva fu spronata fino alle estreme conseguenze. Anche nella neonata Arsia

Una tragedia in nome dell’autarchia 

Inaugurata nel ’37 e tirata su nel giro di un anno e mezzo, diventò il simbolo delle velleità autarchiche del regime, prima ancora di Carbonia. Fu costruita proprio per accogliere le famiglie degli operai impiegati nelle miniere dove c’era un disperato bisogno di manodopera. Tanto è vero che sulla scia del fermento bellico, in soli tre anni, le tonnellate di carbone estratte tra Albona e Barbana d’Istria si triplicarono e servirono più braccia da sacrificare per la patria. 

Questo straordinario sviluppo era dovuto all’ottima gestione affidata a Guido Segre e all’ingegnere Augusto Batini. Il primo, ebreo, aveva fondato nel ‘35 l’Azienda Carboni Italiani, unificando il sistema minerario nazionale e commissionando la progettazione della cittadella. Il secondo era un profondo conoscitore dell’arte mineraria, molto stimato dalla popolazione operaia. Ma entrambi non rimasero a lungo. 

Una dirigenza senza scrupoli e la paura dei minatori

Nel ’38 le cose cambiarono. Le leggi razziali esclusero Segre dalla guida dell’A.Ca.I mentre la nuova dirigenza aziendale sfiduciò Batini. La sua colpa era quella di rifiutarsi a spingere la miniera oltre le sue effettive potenzialità. Uno scrupolo di coscienza poco apprezzato dal regime. 

Perciò nel febbraio del’ 39, arrivò al suo posto un certo Bechi. Sebbene fosse stato assunto con un contratto privilegiato, non aveva nessun merito. Anzi, il suo curriculum era macchiato dalla responsabilità morale sulla disgrazia alla miniera di Ribolla dove morirono 14 operai. E, non a caso, sotto la sua direzione gli incidenti aumentarono. 

Lo scriveva allo stesso Batini, Francesco Braut, suo ex collaboratore: “la recrudescenza degli infortuni gravi è culminata stamane alle ore 3 con la morte di 7 operai al XII livello, in seguito a uno scoppio di gas…Il popolo mormora fortemente e la massa degli operai è molto sfiduciata”. La nuova direzione faceva paura. Totalmente votata alle direttive del regime aveva un solo obiettivo: massimizzare la produzione. Per farlo, decise di utilizzare anche la Camera 1, la stessa che Batini segnalava per problemi di aerazione. Proprio da lì si scatenò la tragedia e non solo per i difetti di ventilazione. 

Le indagini in miniera

Innanzitutto, dai rapporti dei Regi Carabinieri che interrogarono maestranze e dirigenti, è subito chiaro che la disgrazia fu tutt’altro che accidentale. Con ogni probabilità, la deflagrazione fu causata dall’abbandono del lavaggio delle gallerie, dopo l’esplosione delle mine. Questa era necessaria quando la roccia più dura resisteva al martello pneumatico e i minatori, per estrarre carbone, erano costretti a farla esplodere. Una detonazione controllata, ma rischiosa che lasciava in sospensione microparticelle altamente infiammabili. Per evitare il peggio, la procedura prevedeva di bagnare i tunnel per lavare via il polverino di lignite. Un’operazione che prendeva tempo e lo toglieva alla brama di carbone del fascismo. Perciò si scelse di ometterla. 

Di conseguenza, è plausibile che bastò una scintilla nell’asfittica Camera 1 per innescare l’incendio. E quando si cercarono i respiratori per soccorrere i minatori e portarli in superficie, se ne trovarono pochi e per giunta rotti. Dovettero inviarli da Venezia, arrivando 48 ore dopo la tragedia. Decisamente troppo tardi. 

Il sacrificio di Arrigo.

Nel frattempo, i soccorsi procedevano nei limiti del possibile. Limiti che Arrigo Grassi, 28 anni sfidò con enorme spirito di sacrificio. Meccanico di miniera, non ci pensò due volte a scendere nell’Inferno dell’Arsia per aiutare i suoi colleghi. Salvò 10 vite, tranne la sua. Morì cercando un altro compagno che mancava all’appello. Anche se insignito dal Quirinale con la medaglia d’oro al valor civile, rimarrà un eroe sconosciuto in Italia come in Croazia. Perché la memoria politica è opportunista, faziosa e sfoca date, fatti e colpe. 

L’oblio

Oggi la tragedia dell’Arsia è una pagina di Storia invisibile. Un dolore silenziato che a nessuna parte faceva comodo piangere. Le 185 vittime della città del carbone, croate per gli italiani e italiane per i croati, sono cadute facilmente nel dimenticatoio. 

Anche perché fin da subito, la notizia del disastro fu liquidata con brevi trafiletti della stampa locale di regime. Il Piccolo di Trieste, ad esempio, annunciò l’incidente con una trentina di righe in seconda pagina, riducendo il numero di morti e mentendo sulla tempestività dei soccorsi. Dopo ne riparlò solo per esaltare la ripresa dei lavori. “Gli operai si sono presentanti regolarmente ai turni di lavoro dando ancora prova di austera consapevolezza, che anima questi forti e tenaci minatori istriani che addolorati, ma per niente scossi da buoni combattenti proseguono la dura battaglia al servizio della patria”. Niente più. La guerra mondiale e le controversie di frontiera diedero altri morti da commemorare. Per quelli di Arsia solo l’oblio.

Ma i loro figli, i loro nipoti, i concittadini, ieri italiani e oggi croati, non hanno mai ceduto alla rassegnazione. Di generazione in generazione, hanno coltivato il ricordo. Anche quest’anno non si sono tirati indietro. Con una piccola e commossa celebrazione, hanno rotto il silenzio della Storia e ricordato vittime e fatti. Noi eravamo con loro a ricucire questa ferita che non smette di sanguinare, perché di lavoro ancora si muore.

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