L’incendio alla Triangle: una storia di donne.
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L’incendio alla Triangle non è, come molti credono, l’evento fondativo dell’8 marzo. Ma l’equivoco è comprensibile, perché la disgrazia alla fabbrica di New York ha molto a che vedere con i diritti delle donne. Erano proprio loro le più sfruttate dell’opificio. E furono sempre loro a morire in massa in quel terribile incidente. Che poi incidente non era. Perché sete di profitto, diritti femminili e sicurezza sul lavoro non vanno mai di pari passo.
Sognando l’America
Affollata, frenetica, avida. È la New York di inizio ‘900, quando gli affari andavano a gonfie vele e si produceva a ritmi incalzanti. Per gli States era la cosiddetta Golden age: l’epoca che sull’onda della seconda rivoluzione industriale, li portò sulla vetta del mondo. E il mondo sognava gli States. In quegli anni, la Statua della Libertà era un faro di speranza per migliaia di europei, per lo più italiani, che migravano oltreoceano per una vita migliore.
Tra di loro c’era anche la piccola Rosaria. Approdata nella Grande Mela a soli 10 anni, iniziò a lavorare con la mamma Caterina e la sorella Lucia, nella Triangle Shirtwaist Company. Era una fabbrica tessile nel cuore di Manhattan, che occupava gli ultimi tre piani dell’Ash Building, a due passi da Washington Square Park.
Era qui che Rosaria cuciva camicie. Lo faceva per ben quattordici ore al giorno e 7 dollari a settimana, con altre decine di giovani donne stipate come sardine. Un lavoro faticoso, massacrante e, soprattutto, pericoloso. Tra tessuti infiammabili e impianti elettrici a vista, tornare a casa vive non era cosa scontata. Perciò le proteste non si fecero attendere. Nel 1908, una larga mobilitazione delle operaie tessili, seguita da uno sciopero di 4 mesi, partì proprio dalla Triangle. Purtroppo, però, si concluse con un nulla di fatto. Le operaie continuarono a lavorare con turni estenuanti, paghe da fame e senza misure di sicurezza, pronte al peggio. E il peggio arrivò.
L’incendio alla Triangle: 18 minuti di inferno.
Era il 25 marzo 1911 quando la Triangle diventò l’inferno. In quel sabato pomeriggio mancava poco alla fine della giornata. Rosaria e le sue colleghe attendevano il segnale per smontare. Ma all’ottavo piano dell’edificio scoppiò un incendio. Scattato l’allarme, in soli diciotto minuti, l’Ash building si trasformò in una trappola di fuoco. Senza idranti e secchi d’acqua, le fiamme invasero rapidamente l’opificio, bruciando le stoffe e il legno del pavimento. Tra le urla e il panico, tagliatori e operaie corsero alle porte di uscita che, però, erano bloccate. I padroni le avevano sbarrate per evitare furti o pause durante il lavoro.
Nel caos, decine di ragazze provarono a scappare attraverso la scala antincendio che, troppo fragile, si spezzò, facendole precipitare. Altri si affacciarono alle finestre, sperando nel soccorso dei vigili del fuoco. Ma le loro autoscale estensibili non erano in grado di raggiungere i piani più alti dell’edificio. Addirittura, anche i tubi dell’acqua erano troppo corti per spengere l’incendio ai piani superiori.
Per non bruciare vivi, c’era una sola possibilità: gettarsi nel vuoto. «La folla da sotto urlava: “Non saltare!” Ma le alternative erano solo due: saltare o morire bruciati. E hanno cominciato a cadere i corpi (…) i pompieri non potevano avvicinarsi con i mezzi perché nella strada c’erano mucchi di cadaveri» scriveva il New York Times. Mentre il Daily raccontava «Qualcuno pensò di tendere delle reti per raccogliere i corpi che cadevano dall’alto, ma queste furono subito strappate dalla violenza di questa macabra grandinata».
Il bilancio fu drammatico. Morirono 146 persone. 123 erano donne, molte immigrate. Tra di loro c’era anche la piccola Rosaria. Alla tenera età di 14 anni, perse la vita insieme alla mamma e alla sorella. Fu la più giovane vittima del disastro all’Ash building. Una disgrazia senza precedenti e, per la legge, clamorosamente senza responsabili.
Il processo
Eppure individuarli non sarebbe stato difficile. I padroni, Max Blanck e Isaac Harris, avevano di certo le loro colpe. Ma, successo il fattaccio, pensarono bene di tirarsi fuori dai guai. Poco dopo l’incendio alla Triangle, infatti, dichiararono che l’edificio era ignifugo e sollecitarono i primi superstiti a riferire che le porte fossero aperte. La gente moriva, ma la loro unica preoccupazione era di non finire dietro le sbarre. E ci riuscirono. Sebbene la gravità degli eventi avesse spinto l’ufficio del procuratore distrettuale a chiedere un rinvio a giudizio, vennero assolti.
Durante il processo, ogni sopravvissuta testimoniò di aver trovato le porte sbarrate e denunciò l’assenza di misure di sicurezza. Ma non fu abbastanza: la cinica abilità dell’avvocato difensore portò la giuria a una sentenza di non colpevolezza, lasciando il popolo nello sconcerto. Harris e Blanck se la cavarono, pagando solo 75 dollari per ogni vita persa. Anzi, ci guadagnarono. Incassarono dall’assicurazione più di 400 dollari sempre per ciascuna vittima, in barba a tutte le ispezioni da cui risultava che i locali dell’opificio non erano nè ignifughi, né dotati di scale antincendio e uscite adeguate.
La rabbia era incontenibile. Così ripresero le proteste e stavolta qualche risultato ci fu. Nei due anni dopo l’incendio alla Triangle, a New York, furono emanate nuove norme in materia di salute e sicurezza che furono il punto di partenza di un progressivo miglioramento delle condizioni di lavoro.
Una battaglia che continua ancora oggi. Negli States e nel mondo. Perché sarebbe ipocrita dire che da allora nulla è cambiato. Ma lo sarebbe altrettanto dire che nulla deve cambiare ancora.